Dobbiamo proprio raccontarci tutto?
La crisi della narrazione e la vita quotidiana che vogliamo gli altri sappiano di noi.

La stessa fame di selfie non può essere ricondotta al narcisismo. A portare alla fame di selfie è, piú che altro, un vuoto interiore. All'io mancano occasioni di senso che possano dargli un'identità stabile. Al cospetto del vuoto interiore l'io produce permanentemente sé stesso. I selfie riproducono il Sé nella sua forma vuota.
Byung-Chul Han
In La crisi della narrazione*, Byung-Chul Han mette in fila una dietro l’altra una serie di lapidarie “verità” che possono essere tali a seconda del punto di vista con cui si guardano le cose. Leggendolo mi sono ritrovato in tante cose scritte e ho così sottolineato un bel po’ di pagine.
“Dobbiamo proprio raccontarci tutto?” è una domanda che ciclicamente (da molto prima di aver letto questo libro) mi torna in testa e in questo caso l’ho appuntata in una delle pagine bianche alla fine del libro.
La risposta semplice semplice che mi do è ovviamente negativa ed è questo quello che provo a mettere in pratica: condivido qualcosa che mi riguarda pensando che non sia solo un riempire un vuoto interiore, un affermare di esserci, di essere visto e percepito, quanto un piccolo personale contributo “narrativo” e non autocelebrativo che possa “tornare utile” anche a chi fruisce di quel contenuto.

Posto la foto di un maritozzo favoloso preso a Genova e segnalo il posto, che magari tu sei unə maritozzo-addicted e la prossima volta vai a colpo sicuro.
Vado sull’Etna metto la foto Teseo Screpolato che magari hai già visto altre cento volte perché è un “lead-magnet” (direbbero quelli bravi che fanno il mio lavoro), ma magari no (infatti qualcuno mi ha scritto per chiedermi info).
Ma quando pubblico foto di una presentazione (come quella sopra) quanto sto arricchendo il racconto collettivo e quanto mi sto autocelebrando? Beh, la risposta è abbastanza evidente.
Allora, ci riesco sempre a razzolare bene? No.
Capita di postare per autocelebrarsi? Tanto in questo periodo.
Come mi sento quando pubblico cose autocelebrative? In imbarazzo.
Posso non raccontare quello che faccio, visto il lavoro che faccio? Non posso1.
Byung-Chul Han* nel suo testo evidenzia come proprio questa abbondanza di “racconti” personali abbia indebolito la forza delle narrazioni. Nel testo, in realtà, le cause sono molteplici e c’entrano pure l’informazione e la politica, come indicato nel titolo del libro.
Insomma il libro è una mazzata al nostro modo d’essere, fatto con frasette semplici che mi innervosiscono perché toccano dei nervi scoperti che - io almeno - tento sempre di coprire.
Per quel che mi riguarda questo è un conflitto continuo, che oscilla tra il “Dobbiamo proprio raccontarci tutto?” e il “Beh, ma è venuta un sacco di gente alla presentazione, condivido tutto”. Tra “ok questa la posto” e “ma sti cazzi”.
Ciao
Rocco
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È probabile che noi ci conosciamo da una vita, ma è anche vero che ultimamente un po’ di persone sono (siete!) arrivate su questa newsletter grazie a segnalazioni varie.
Non so se mi abituerò mai all’idea che qualcuno legga le mie parole senza che prima ci sia stato un incrocio di sguardi prima.
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Sì, ho scritto due libri: Perdersi in Rete. Guida pratica per persone curiose e Dire qualcosa non vuol dire avere qualcosa da dire.
Loop: più racconti quello che fai, più vieni preso in considerazione, meno racconti quello che fai più ti capita di incontrare qualcuno che ti dice “eh ma non ho visto nulla, pensavo avessi cambiato lavoro”. Io del mio lavoro “day-by-day” cerco di raccontare il meno possibile lasciando più spazio “al contorno” e non lo so mica se questo è giusto o sbagliato.